Contemporanea

Mauro Magatti

2.2 Rivoluzione in quattro piani

AI è il nome che diamo ai sistemi che hanno due caratteristiche: la prima è che sono in grado di trattare in maniera evoluta e veloce quella particolare materia che sono le informazioni; la seconda è che introducono un nuovo interfaccia uomo-macchina che permette una interazione molto semplice. Dalla combinazione di queste due caratteristiche diviene possibile una nuova interazione capace di derivare immagini correlazioni, combinazioni inedite. E a cui, come umani, siamo chiamati a dare significato.

Tali sistemi agiscono su quattro differenti piani – datificazione, archiviazione, elaborazione, circolazione – destinati a cambiare in profondità la nostra vita sociale: conoscere, ricordare, decidere, governare non saranno più gli stessi. In meglio, da tanti punti vista. Ma anche, allo stesso tempo, con nuovi rischi da conoscere e, se possibile, da contrastare.

Il primo piano è quello della datificazione. Nel mondo digitale, tutto viene registrato nella forma di “dato”. I benefici sono evidenti: con la datificazione possiamo disporre di molte più informazioni sul mondo che ci circonda. Il che ci permette di fare cose prima impossibili. Tuttavia, la datificazione, lungi dal registrare in maniera neutra la realtà, è una operazione di “traduzione”, che seleziona e trasfigura la realtà. Ciò ha almeno due conseguenze. Intanto, a contare è solo ciò che misurabile. Tutto ciò che non è misurabile, calcolabile, sommabile rischia perciò di scomparire dal nostro orizzonte, cioè dai significati condivisi. L’invisibile – che per il Piccolo Principe era l’essenziale – rischia di perdersi.  Entriamo così in una sorta di immanenza che pretende di essere perfetta, dalla quale nulla sembra sfuggire e che non lascia alcun resto. È la pretesa di una sorta di totalità. In secondo luogo, la datificazione non è un processo neutro ma risponde a precisi criteri, impliciti o espliciti e inevitabilmente degli interessi – e dei relativi orientamenti. Concretamente, dei grandi gruppi economici che gestiscono questo processo. La datificazione pone il tema di quale conoscenza, e a favore di chi.

Tutto ciò che non è misurabile, calcolabile, sommabile rischia perciò di scomparire dal nostro orizzonte, cioè dai significati condivisi.

Il secondo piano è quello della archiviazione, che vuol dire memoria. Cioè storia, radice, connessione intertemporale. Da sempre la tecnica interferisce con la costruzione della memoria, fin dalla introduzione della scrittura che ha permesso la stabilizzazione e la accumulazione della conoscenza, e che Socrate temeva per l’effetto di dimenticanza che avrebbe provocato sulla sapienza umana. O si pensi a come è cambiata la vita personale e sociale con l’introduzione dell’orologio, che ha insegnato la puntualità e il risparmio del tempo. Ora, con la AI si compie un passo in più, dato che il problema è la crescente sproporzione tra la nostra memoria e quella digitale. Un computer oggi può memorizzare più dati di quanti ne possa accumulare un uomo nella sua intera vita. Svolge, in un istante, il lavoro di anni. Ma questa straordinaria capacità porta con sé interrogativi fondamentali: può il computer diventare una misura del mondo, dell’uomo e del tempo? Come scrive lo storico Arno Borst «un computer memorizza un numero di dati maggiore di quelli lasciati in eredità da tutti i giorni della vita di un uomo; svolge, in un attimo, tutto l’umile lavoro per cui in passato gemeva un secolo intero. Concede maggiore libertà. Tuttavia, solo a chi non gli conferisca i tratti del dio alla cui totale razionalità gli uomini erranti, imprevedibili si sottomettono. La sua efficacia è troppo quantitativa e momentanea perché esso possa divenire misura del mondo, dell’uomo e del tempo. I pionieri delle scienze naturali ne sono consapevoli da molto tempo e mettono in guardia da un’uniformazione di breve respiro che vorrebbe orientare tutte le molteplici articolazioni del tempo in base alle esigenze di laboratorio e alle possibilità del computer».

Il terzo piano è quello della elaborazione della massa di dati che sono oggi resi disponibili. Per questa via, grazie agli algoritmi, è il processo decisionale a cambiare. Permettendo di risolvere problemi complicatissimi e gestire situazioni altamente complesse, addirittura fuori dalla portata della nostra comprensione. In una società che per funzionare dipende da apparati tecnici, questa necessità diventa sempre più impellente. In questo modo, si rafforza quell’effetto di “sgravio” di cui parlava Arnold Gehlen mezzo secolo fa: nei più diversi campi – dalla sanità al diritto, dalla finanza all’educazione – siamo spinti a ritenere che il risultato dell’elaborazione automatica – indebitamente e ideologicamente chiamata “intelligenza artificiale” – debba comunque essere preso per buono. Ciò da una parte espone al rischio  di amplificare pregiudizi – come è accaduto, per esempio, negli Stati Uniti dove si è cominciato a usare gli algoritmi per prevedere la localizzazione dei reati, decidere il tipo di supervisione dei detenuti o fornire informazioni utili durante i processi col risultato di aver inavvertitamente causato distorsioni razziali basate su effetti statistici mal ponderati dallo  strumento digitale – o errori – come avvertono   gli analisti che temono un’escalation nucleare innescata da algoritmi che possono decidere di far partire un razzo senza considerare aspetti non inclusi nella procedura dì gestione dell’emergenza. Il problema è non perdere la fiducia nella capacità di giudizio umana, per affidarsi sempre più radicalmente a sistemi che, per quanto potenti, sono impersonali, vulnerabili ed esposti all’errore. Dall’altra parte, il tema ape la questione della sicurezza, dato che gli hacker sono in grado di saltare qualsiasi difesa. La vulnerabilità dei sistemi è un problema a cui bisognerà dedicare particolare attenzione. Come ha insegnato Mcluhan, il medium è il messaggio. E l’AI è il nuovo medium. Proprio perché struttura un sistema, l’AI rischia di causare la liquidazione del discernimento, cioè la capacità di prendere le distanze da una realtà sempre più potente per poterla sottoporre a critica, ed esercitare così una capacità di decisione autonoma e di promozione di un pensiero personale e collettivo libero. In futuro, saremo capaci di opporci alle “sentenze” dei sistemi di intelligenza artificiale? Quali accorgimenti dovranno essere presi per non perdere competenze e responsabilità?

Il problema è non perdere la fiducia nella capacità di giudizio umana, per affidarsi sempre più radicalmente a sistemi che, per quanto potenti, sono impersonali, vulnerabili ed esposti all’errore.

L’ultimo piano da considerare è quello della circolazione. Nella rete tutto è veloce perché gli interfaccia che sono stati costruiti rendono l’interazione uomo-macchina molto facile. Ora con ChatGpt si fa un nuovo salto.  Nel flusso continuo e debordante in cui siamo immersi diventa difficile distinguere digitale e analogico. Ma anche il vero dal falso. C’è sempre meno tempo il tempo per capire e approfondire, con effetti non secondari. Se, come ha mostrato Marianne Wolf, il ‘reading brain’, con le sue competenze, si sviluppa in relazione alla parola scritta, cosa accade quando la nostra mente si abitua a interagire quasi esclusivamente con un flusso disordinato e incoerente di informazioni, parole, immagini? Come possiamo vagliare l’enorme quantità di informazioni contraddittorie, quando nel vortice della rete digitale non esiste – né può esistere – autorità in grado di certificare alcunché? L’AI – che si definisce generativa – trae un enorme vantaggio riconfigurando di continuo il proprio passato e il proprio futuro. La quantità e la velocità dei flussi interferiscono sulla formazione della soggettività e dell’identità. Il potere non si basa più sulla solidità delle istituzioni tradizionali, cariche di valori e norme – e quindi sulla propaganda – bensì sulla velocità che è capace di anticipare ciò porta a un determinato comportamento. Già oggi, sfruttando i big data, si possono creare folle digitali sulla base di stimoli che aggregano numeri molto elevati di persone. Antoinette Rouvroy la chiama “governamentalità algoritmica” cioè un modo inedito di governo alimentato da segnali infra-personali, senza significato ma quantificabili (dati grezzi e metadati), indirizzato agli individui attraverso i loro “profili” – modelli comportamentali prodotti su base puramente induttiva – piuttosto che attraverso le loro comprensioni e volontà. La governamentalità algoritmica non produce soggetti, ma corpi statistici; non individui, ma “dividui”. Il “soggetto” a cui pensa la governamentalità algoritmica è un unico, sovraindividuale, costantemente riconfigurato ‘corpo statistico’, composto da tracce digitali infra-individuali di sfaccettature impersonali, disparate, eterogenee e ‘dividualizzate’ estratte dalla vita quotidiana e dalle interazioni. Frammentato in miriadi di dati, l’individuo diventa infinitamente calcolabile, comparabile, indicizzabile e intercambiabile, all’interno di una economia della reputazione in cui rischio e opportunità operano in modo automatico nella scala subliminale dei dati infra-personali. Mentre le società del passato – quelle che Deleuze chiama disciplinari – erano regolate da contenuti rigidi e parole d’ordine, la società digitale si basa sul linguaggio numerico del controllo ed è fatta di codici che segnano l’accesso o l’esclusione dall’informazione. Gli individui diventano dividui, masse, campioni, dati, mercati.

La fase matura della digitalizzazione in cui entriamo con il passo in avanti compiuto dalla cosiddetta “intelligenza artificiale generativa” permetterà grandi sviluppi grazie alla crescente capacità di trattare l’informazione e allo sviluppo delle forme di interazione uomo-macchina che ciò rende possibile. Ma questo passaggio andrà compensato attraverso la creazione degli antidoti necessari agli effetti collaterali che si produrranno.  Se l’AI esternalizza, velocizza ed efficienta la nostra capacità computazionale, avremmo bisogno di più pensiero. Cioè più educazione, più organizzazioni intelligenti, più luoghi partecipativi. Chissà se ce la faremo.

Mauro Magatti

Sociologo ed economista, dal 2002 è docente di Sociologia Generale presso l’Università Cattolica di Milano. Autore di numerose monografie e saggi. Il suo ultimo libro è: “Supersocietà” (2022, Il Mulino), scritto insieme a Chiara Giaccardi. È editorialista de Il Corriere della Sera e Avvenire.