Miguel Benasayag
2.7 Fiducia nella nostra stupidità
Riproponiamo alcuni stralci dell’intervento del filosofo Miguel Benasayag al Meeting di Rimini del 25 agosto 2022 in occasione dell’incontro dal titolo “La macchinizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della macchina”. Nella complessità delle argomentazioni, colpisce il giudizio di fondo che emerge: esiste una differenza qualitativa tra l’uomo e la macchina, e la natura dell’uomo non è solo quella di “funzionare”, ma di esistere.
È certo che l’umanità vive una crisi enorme, strutturale, del suo modo di abitare il mondo, di stabilire rapporti con le altre specie, con l’ecosistema. Noi stiamo uscendo più o meno da quello che chiamiamo antropocene, da questa epoca, dove l’uomo comincia a diventare così “pesante” per il pianeta che modifica assolutamente tutto con la sua azione. Oggi l’urgenza è chiedersi quale sia la possibilità per l’umanità di arrivare ad una nuova alleanza, ad un nuovo modo di abitare il mondo. In questo senso effettivamente la rivoluzione digitale arriva in un momento cruciale. La questione non è tanto “cos’è la macchina”, piuttosto la potenza del digitale obbliga a domandarsi cosa sia il vivente. Non parlo solo dell’essere umano, ma del vivente in generale. Qual è la singolarità del vivente, perché siamo a tal punto affascinati dalla possibilità della macchina che dimentichiamo di vedere qual è la singolarità dell’umano. In questo senso non è possibile guardare il futuro dallo specchietto retrovisore, non possiamo dire che “era meglio prima”. Noi dobbiamo guardare la realtà attuale e il futuro chiedendoci come l’umanità, come il vivente potrà condividere il mondo con questa potenza immensa del digitale. Siamo tutti convinti che tra la macchina e l’essere vivente ci sia semplicemente una differenza quantitativa. In che cosa consiste invece la differenza qualitativa? C’è una differenza qualitativa o no?
La potenza del digitale obbliga a domandarsi cosa sia il vivente.
La questione è che il vivente in generale e l’umano in particolare hanno una natura che non è solamente quella di funzionare, ma di esistere. Esistere vuol dire vivere l’angoscia esistenziale di essere qui cercando il senso, di esserci senza sapere perché siamo qui, sempre attraversati da dilemmi etici, politici. Questo per la macchina è assolutamente impossibile, non ha niente a che vedere con la macchina e in questo senso noi dobbiamo fare molta attenzione a questo desiderio di diventare “sempre più macchina”. Per il vivente e per l’essere umano in particolare la falla non è un difetto, è il nostro rapporto con l’esistenza, il nostro rapporto con noi stessi, con la storia. L’uomo vive una falla strutturale, mentre per la macchina non ci sono falle, solo difetti.
Il vivente in generale e l’umano in particolare hanno una natura che non è solamente quella di funzionare, ma di esistere.
Delegare le funzioni alla macchina implica sempre un rischio di diventare noi meno potenti, meno capaci di fare le cose, meno capaci di immaginare. Anni fa abbiamo svolto una piccola ricerca: abbiamo comparato un gruppo di autisti di taxi a Londra con un altro a Parigi. Il gruppo di Londra continuava a guidare senza navigatore, il gruppo di Parigi invece usava il navigatore. In breve, dopo tre anni tutti i membri del gruppo di Parigi avevano i nodi sottocorticali (che registrano il tempo e lo spazio) atrofizzati, al contrario di quelli di Londra. Se c’è il navigatore e io posso delegargli questa funzione, perché continuare ad avere il problema di perdermi? Il fatto è che avere questi nodi atrofizzati significa effettivamente non potere più orientarsi nel tempo e nello spazio. Gli esseri umani che hanno questi nodi ben sviluppati non sono cittadini, ma in genere contadini o indios e sono capaci di orientarsi in un posto in cui non sono mai stati perché riescono a capire, a catturare dei segni che li informano dove più o meno si trovano anche se non sono mai stati lì. In questo senso effettivamente non si tratta affatto di essere tecnofobi, ma di chiedersi come si possa utilizzare la macchina senza atrofizzarsi, senza perdere tutte quelle funzioni che fanno di me un essere vivente. Chiedersi come posso non essere colonizzato dalla macchina, malgrado la macchina.
Come si possa utilizzare la macchina senza atrofizzarsi.
Il transumanesimo parla di una vita senza morte e quindi di una “non vita”, senza limiti. Il limite struttura uno spazio, mentre il confine ci impedisce di sviluppare la nostra potenza. Nella nostra epoca tutti i limiti che strutturano la vita e la società sono considerati come dei confini, quindi da abolire. Una volta nel grande teatro Olympia di Parigi c’era una riunione in cui io parlavo per ultimo. Prima di me c’era Laurent Alexandre, un ricercatore francese, medico, autore di un libro dal titolo “La morte della morte”. Sosteneva che gli uomini non moriranno più e che anche lì fra i convenuti ci fosse qualcuno che sarebbe vissuto mille anni. Questo messaggio secondo cui non ci sono limiti, ma solamente confini, è una barbarie. La vita senza limiti si chiama cancro, un pensiero senza limiti si chiama psicosi, una lingua senza limiti si chiama barbarie. Il problema non è tanto se noi possiamo sviluppare dei nuovi possibili, ma quali sono i limiti che riordinano questo mondo in cambiamento. È vero che noi siamo in un momento di ri-simbolizzazione (il modo di essere e di esistere cambia, le cose che fino a ieri erano “normali” oggi non sono più considerate tali) ma dentro questa nuova potenza, questa nuova possibilità, la singolarità non può essere il passaggio ad un mondo senza limite. Se tutto è possibile niente è reale. La singolarità deve consistere nel conoscere che questa particolarità che costituisce il vivente e l’umano non è costruibile come una macchina. Questa singolarità della finitudine del vivente non è un confine, ma il limite che permette di dare senso al qui e ora. Noi dobbiamo rientrare in amicizia con questa finitudine, che non vuol dire rispettare una morale fatta di regole, non innovare, non cambiare, ma rispettare il limite che protegge il vivente.
La singolarità deve consistere nel conoscere che questa particolarità che costituisce il vivente e l’umano non è costruibile come una macchina.
In realtà credo che dovremmo elaborare un nuovo test di Turing, per vedere se la macchina è veramente capace di essere stupida come noi umani. Il giorno in cui la macchina riuscirà ad essere stupida come noi, ad essere schiava delle passioni e dei desideri, allora quel giorno sarà davvero inquietante. Finché la macchina calcolerà meglio di me non vedo alcun problema.
Credo che dovremmo elaborare un nuovo test di Turing, per vedere se la macchina è veramente capace di essere stupida come noi umani.
Miguel Benasayag
Filosofo, psicanalista ed ex guerrigliero guevarista argentino, naturalizzato francese. Dal 2020 dirige il corso “Trasformazioni in ambito biologico e antropologico” all’interno del Master in Estetica Latino-americana Contemporanea presso l’Università di Avellaneda (Argentina).