Contemporanea

A cura della redazione

1.1 Il grande dibattito su presente e futuro dell’Unione

Senza dubbio il progetto europeo sta attraversando oggi prove complesse e urgenti, e queste stesse prove stanno condizionando ed orientando il futuro della costruzione sempre in itinere della casa comune europea. “L’Europa vive di crisi”, sostenne nel 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il monito risuona quanto mai attuale in questo tempo. Fino a che punto avvenimenti come Brexit, pandemia, la più recente guerra in Ucraina, hanno minato le fondamenta del progetto europeo? Tre anni di pandemia hanno inferto ferite a livello economico e soprattutto sociale, mentre l’aggressione russa in Ucraina ha rappresentato un punto di svolta (Zeitenwende, secondo le parole del cancelliere Olaf Scholz) in termini di relazioni transatlantiche. Un solco profondissimo si è creato con il mondo russo, chissà quando e come sanabile. Dentro questi stravolgimenti, quale volto svela oggi l’Europa? Quale visione proietta nel futuro, anche sulla scena globale?

Foreign Affairs titola efficacemente l’edizione del suo centenario, pubblicata nel settembre 2022, “The Age of Uncertainty”, ed è con questa età dell’incertezza che il nostro continente deve misurarsi. In primo luogo, pensiamo a una insicurezza a livello globale: viviamo in un mondo ormai post-americano, scriveva già nel 2018 il politologo Fareed Zakaria, in cui lo sviluppo economico e militare di altri Paesi ha eroso il potere degli Stati Uniti sullo scenario internazionale. L’emergere di altre potenze (“the rise of the rest”, sempre citando Zakaria) è insieme causa e conseguenza del fallimento della creazione di un ordine mondiale a guida Usa. Richard Haass (Council of Foreign Relations) scrive che il mondo sta sperimentando nuovamente gli aspetti peggiori della geopolitica tradizionale: competizione tra grandi potenze, ambizioni imperiali, lotta per le risorse. A tutto ciò si sommano le nuove sfide della contemporaneità (pandemie, crisi climatica, proliferazione nucleare) creando così un “divario preoccupante” (frightening gap) tra le sfide globali e la capacità di offrire risposte in un’epoca dove l’altissima competizione tra potenze rende la cooperazione sempre più una chimera, quando invece sarebbe centrale nella risoluzione di problemi condivisi.

Le sfide che attraversa l’Europa si inseriscono in un contesto più ampio di generalizzata crisi delle democrazie. Il report annuale di Freedom House, autorevole think tank americano, racconta che nel 2022 il divario tra il numero di paesi che hanno registrato miglioramenti complessivi nei diritti politici e nelle libertà civili e quelli in cui se ne osserva un calo complessivo è stato il più ridotto mai registrato in diciassette anni di continuo peggioramento degli indici globali. Le battute d’arresto più gravi per la libertà e la democrazia sono dovute a guerre, colpi di stato e attacchi alle istituzioni democratiche. Non è immune da questa crisi l’Europa: in Ucraina si sta combattendo una guerra che si prolunga da ormai più di un anno, frutto dell’ambizione imperialista e del desiderio di creazione di una sfera di influenza da parte della Russia tiranna di Putin. Ricorda la giornalista e storica Anne Applebaum che potremmo non voler competere con nessuno di questi regimi autoritari e nemmeno preoccuparci molto di loro, ma a loro importa di noi, e faranno tutto il possibile per indebolirci.

Movimenti populisti e apertamente antisistema siedono anche nei parlamenti di molte città europee, e il dibattito politico nazionale è spesso inquinato da un generale senso di scetticismo o distacco verso le istituzioni comunitarie. Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione – avvenuta formalmente il 30 gennaio 2020 – il progetto europeo è stato fortemente messo in discussione. L’impatto che la Brexit ha avuto sull’economia britannica è ben noto: le stime del Fondo Monetario Internazionale per il 2023 certificano che il Regno Unito sarà l’unica economia avanzata in recessione quest’anno, l’inflazione registrata è ai livelli più alti da quarantacinque anni. Sperimentiamo allo stesso modo un effetto della Brexit carico di conseguenze sulla percezione che si ha dei costi e benefici di appartenere alla Unione. Con la decisione di uscire dall’UE, Boris Johnson ha contribuito a vandalizzare l’architettura politica europea, in una spirale di fake news ed euroscetticismo che lui stesso aveva contribuito ad alimentare già negli anni di corrispondente del Telegraph da Bruxelles: “lanciavo pietre oltre il muro del giardino e ascoltavo l’incredibile schianto provenire dalla serra dei vicini in Inghilterra, perché tutto quello che scrivevo da Bruxelles stava avendo un effetto fantastico ed esplosivo– e mi procurava uno strano senso di potere”.

È con questa età dell’incertezza che il nostro continente deve misurarsi.

Negli ultimi anni il nostro continente ha cercato senza risultato di trovare una linea comune intorno alla riforma del Regolamento di Dublino sull’accoglienza dei migranti. L’ultima proposta sul tema risale ormai a tre anni fa (Nuovo patto per la migrazione e l’asilo). I flussi che si registrano sono ai massimi dal 2015 e ai numeri degli sbarchi si sono aggiunti gli otto milioni di ucraini che hanno lasciato il paese con l’inizio del conflitto e che hanno trovato rifugio in Europa (in Italia sono circa 173.000). Davanti a questa crisi ormai permanente i governi europei hanno sempre rinviato la ricerca di soluzioni e l’adozione di decisioni per una politica comune sull’immigrazione. Eppure, guardando alle realtà locali nazionali, non mancano esempi riusciti di politiche di integrazione ed esempi di accoglienza sul territorio efficaci a cui guardare per comprendere il grandissimo potenziale che questa sfida porta con sé.

Con tutte le sue contraddizioni e limiti, “oggi l’Europa è più un sogno di chi non la possiede, di chi non ce l’ha, non di chi l’abita, sazio, da secoli”, sostiene lo scrittore Paolo Rumiz, argomentando: “la mia sensazione è che l’anima profonda dell’Europa abiti sul confine e spesso oltre i confini. Noi abbiamo completamente perso il senso dolce dell’appartenenza a questa patria comune”. Ma non tutto è perduto. È spesso immedesimandoci nello sguardo dell’altro che cogliamo il significato profondo e anche la bellezza della costruzione europea, la sua novità e la sua attrattività, quella capacità di essere una terra di scambi, di multiculturalità e diversità, inclusione e soprattutto libertà. Non c’è contraddizione tra chi arriva e abbraccia oggi il sogno europeo e chi invece lo abita, “sazio”, da sempre.

“È la lontananza che genera il desiderio di Europa”: ce lo testimoniano i migranti che raggiungono i nostri paesi così come le persone che sono scese per le strade di Tbilisi, in Georgia, lo scorso marzo. Il Paese, proprio per la sua posizione strategica nel Caucaso meridionale, è stato a lungo al centro di contese geopolitiche tra Russia e Occidente. La guerra in Ucraina ha esacerbato una situazione di politica interna dove l’opposizione filoccidentale ha accusato il governo di voler fermare il processo di adesione all’UE, la cui domanda formale è stata presentata nel marzo 2022. Le proteste pacifiche di piazza hanno coinvolto la società civile del Paese e hanno mostrato le aspirazioni reali dei georgiani di poter partecipare al progetto europeo.

“La piena integrazione dei Paesi che manifestano aspirazioni europee non rappresenta una minaccia per la tenuta del progetto europeo. È parte della sua realizzazione”, sosteneva il presidente Mario Draghi a Strasburgo nel maggio 2022. La stessa linea era espressa dal cancelliere Olaf Scholz in visita a Praga (agosto 2022): “sostengo favorevolmente l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dei Balcani occidentali, oltre che all’Ucraina, alla Moldavia e, in futuro, anche alla Georgia. Tuttavia, un’UE con 30 o 36 Stati membri avrà un aspetto diverso dall’Unione di oggi. Il centro dell’Europa si sta spostando verso est. In questa Unione allargata, le differenze tra gli Stati membri aumenteranno per quanto riguarda gli interessi politici, il peso economico e i sistemi di sicurezza sociale. L’Ucraina non è il Lussemburgo e il Portogallo vede le sfide del mondo in modo diverso rispetto alla Macedonia del Nord”. Ad avviso di entrambi sono i meccanismi decisionali dell’UE che vanno quindi profondamente rinnovati, superando il principio dell’unanimità, da cui origina secondo Draghi “una logica intergovernativa fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata. Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è un’Europa più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo”.

Oggi l’Europa è più un sogno di chi non la possiede, di chi non ce l’ha, non di chi l’abita, sazio, da secoli.

È interessante in questo senso la tesi dello storico inglese ed esperto di Europa Timothy Garton Ash, che scrive di come in particolare la guerra in Ucraina sfidi l’Europa contemporanea a tramutarsi in un “impero post imperiale”: “paradossalmente, per resistere all’aggressione russa, l’UE stessa deve assumere alcune delle caratteristiche di un impero. Deve avere un grado sufficiente di unità, autorità centrale e un processo decisionale efficace per difendere gli interessi ei valori condivisi degli europei. Ecco allora la sorprendente prospettiva che la guerra in Ucraina rivela: l’UE come “impero post imperiale”, in partenariato strategico con un “impero post imperiale americano”, per impedire il ritorno di un impero russo in declino e frenare quello cinese in ascesa”. Osserva lo storico che politicamente né l’Unione Europea né gli Stati Uniti si presenteranno mai come un impero. Analiticamente però, con il futuro completamento dell’allargamento verso est, realtà geografiche, storiche e culturali diversissime tra loro saranno riunite in un unico insieme interconnesso di comunità politiche, economiche e di sicurezza. Un nuovo tipo di “impero”, basato sull’adesione volontaria e sul consenso democratico, abbastanza forte da difendere gli interessi e i valori europei sarà in grado di tenere testa agli imperi russo e cinese.

Il tema quindi di una politica estera unitaria e della costruzione di una difesa comune (quando ancora in tutto e per tutto l’Europa fa affidamento agli Stati Uniti per la sua sicurezza) è stato rilanciato ultimamente dal presidente francese Emmanuel Macron. Di ritorno da un viaggio in Cina, il 9 aprile scorso Macron in una intervista a Politico e Les Échos ha rilanciato il concetto di autonomia strategica dell’Europa (autonomie stratégique). Per il presidente francese l’obiettivo è di fare dell’Unione Europea una “terza superpotenza”, per evitare il grande rischio di trovarsi trascinata in crisi globali che non le appartengono, iniziando a seguire la politica americana come sopraffatta dal panico. “Alleati non significa certamente essere vassalli” ha ripetuto qualche giorno dopo in visita all’Aia. Come prevedibile, Xi Jinping e il Partito comunista cinese hanno elogiato il concetto di autonomia strategica enunciato. Leader di partito e teorici a Pechino sono convinti che l’Occidente sia in declino e la Cina in ascesa e che l’indebolimento delle relazioni transatlantiche contribuirà ad accelerare questa tendenza, riporta Politico. Il politologo Ian Bremmer ha commentato le parole di Macron con altrettanto realismo: “l’Europa dovrebbe essere abbastanza potente da resistere alla Russia e competere da sola con la Cina? Assolutamente. Ma il concetto di autonomia strategica per cui Macron ha lottato per anni non può essere semplicemente discusso. Deve essere guadagnato nel mondo reale attraverso costosi cambiamenti politici che l’Europa non sembra in grado o disposta ad adottare”.

Immersa nell’età dell’incertezza, l’Europa trova quindi davanti a sé scenari e prospettive diversissimi tra loro. Come in altri bivi della sua storia, è chiamata a ripensarsi e a “rivolersi” come progetto comune per poter prendere una strada piuttosto di altre. Cosa siamo, cosa vogliamo essere: è questo il tempo di affrontare la questione più vera.