Eugenio Mazzarella
1.2 Nel gioco delle matrioske
In Ucraina si sta decidendo il destino dell’Europa per i prossimi decenni. Scartato l’impensabile, cioè una escalation globale del conflitto senza esclusione dell’arma nucleare, abbiamo davanti due scenari. O una “ricucitura” della ferita inferta al cuore dell’Europa cristiana, una ricucitura dei rapporti tra i paesi europei e una Russia “europea”, che non la consegni ad una Eurasia sotto l’egemonia della Cina. Ricucitura per cui ci vorranno comunque decenni e che implica l’adesione convinta e non subita a un governo multipolare dei processi di globalizzazione. Ovvero uno stallo alla coreana: un ritorno alla guerra fredda sotto l’alea che diventi in ogni momento aperto confronto militare. Uno scenario che vedrebbe il definitivo declassamento geopolitico dell’Europa e la consegna alla Nato e fondamentalmente all’alleato USA della sua sicurezza in una sovranità limitata delle sue opzioni nei rapporti internazionali (favorita dal consenso dei paesi baltici ed ex Patto di Varsavia, e potentemente spinta dalla Gran Bretagna nella sua ambizione di Lord protettore e garante di questo assetto). Declassamento simmetrico, ma non eguale, a quello che verrebbe al ruolo geopolitico della Russia, che ovviamente proverà (come già sta facendo) a recuperarlo in un rapporto sia pure subordinato con la Cina e con i paesi tutti della “diffidenza” antioccidentale. Scenario pessimo, a parte ogni altra considerazioni degli interessi europei, perché ricade tutto nel quadro di un confronto non cooperativo, e quindi pericolosissimo, delle ambizioni “imperiali” di USA e Cina, le prime in affanno, le seconde in crescita.
Per dare una chance al primo scenario, bisognerebbe che ogni sforzo, in una guerra che nessuno dei due contendenti può vincere sul terreno, fosse votato alla pace. Perché si realizzi l’angosciante secondo scenario, basta lasciar andare le cose come stanno andando. E cioè male, malissimo. E in tutto questo dov’è l’Europa? Dove sono i suoi interessi, e più ancora il ruolo che dovrebbe rivendicare alla sua stessa storia, di “matrice” di un Occidente che non può essere ridotto ad un’istanza di “suprematismo” tecnico ed economico, che al di fuori di sé stesso non trova acquiescenza o adesione dai due terzi del mondo? Perché questo è il punto, che l’Europa vaccinata dal collasso del suo colonialismo e da due guerre civili europee nel ‘900 che anche da questo erano nate, sembrava aver cominciato ad intendere, immaginando un suo altro stare al mondo della politica di potenza con la nascita dell’Ue e il successivo ampliamento della sua costruzione istituzionale. È possibile rimediare a quel ruolo di fantasma dell’Europa che si aggira per l’Europa stessa? Sul terreno, qualche complessa opportunità, forse poco più che uno spiraglio, ma che è lo spiraglio della necessità, forse c’è; ed è legata alle iniziative di pace, o quanto meno di cessazione delle ostilità, in Ucraina, che si sono aggiunte a quella fin dall’inizio portata avanti dalla diplomazia vaticana.
L’ultima di queste iniziative di pace, dopo fallimenti più o meno programmati di quelle che si erano affacciate in questo anno di guerra dalla Turchia ad Israele, è del Brasile di Lula. Ed è importante. Perché non è tacciabile di ambiguità, o controvertibile facilmente per gli interessi contrapposti in campo, come la proposta di posizione della Cina per porre fine alle ostilità in vista di un tavolo di pace. Una proposta che dà per altro voce al punto di vista del “Sud” del mondo sul conflitto che oppone l’Occidente all’Eurasia fatta cominciare, come non doveva, da Mosca, ancorché dal 2014 nel Donbass c’erano tutte le condizioni perché potesse accadere. Un punto di vista che va preso seriamente in considerazione anche nella sua insofferenza – che spiega il non allineamento alle posizioni atlantiche – alla resistenza, che viene da Usa, Gran Bretagna, con al seguito Polonia e paesi baltici, ad un governo multilaterale dei processi in atto della globalizzazione.
È possibile rimediare a quel ruolo di fantasma dell’Europa che si aggira per l’Europa stessa?
Siamo molto attenti a capire e giustificare risentimento e diffidenza dei Paesi ex Patto di Varsavia a quarantaquattro anni di sudditanza al “mondo russo” dell’URSS, ma facciamo fatica a capire qualcosa di molto simile in un Sud del mondo che ha vissuto una predominanza, ed usiamo un eufemismo, occidentale per un lasso temporale dieci volte maggiore. È ora che prendiamo atto che il mondo è cambiato, e proprio se vogliamo continuare ad essere come Occidente un punto di riferimento cooperativo nella governance pacifica di cui ha bisogno il mondo sempre più interdipendente che abitiamo. Da questo punto di vista, sarà stata pure infelice nei modi, ma l’uscita di Berlusconi sulla pace, ovviamente lodata da Lavrov come “ragionevole”, e che cioè i soldi l’Occidente dovrebbe metterli per un piano Marshall di ricostruzione piuttosto che su forniture di armi per una guerra che non può risolversi sul campo, a meno di non imbarcarsi nell’azzardo nucleare, è meno peregrina di quanto sembri. E si fa torto alla realtà, derubricandola a marketing elettorale ad uso interno, che magari pure ci sarà stato, per non mettere in imbarazzo la linea ufficiale del governo italiano di sostegno incondizionato al mainstream attuale dell’atlantismo.
Forse è il momento che ognuno coltivi, nel suo campo, o sulla trincea su cui ha deciso di collocarsi, i se e i ma, il beneficio del dubbio, il beneficio che dal dubbio può venire a questa situazione. Mi spingerò oltre: paradossalmente, mentre è stata costretta a smentirlo, non ha avuto tutti i torti la Meloni a dire che Berlusconi è stato il miglior ministro degli esteri che l’Italia abbia avuto. Evidentemente pensava a Pratica di Mare, al maggio del 2002, quando Berlusconi riesce a far stringere la mano a Bush e Putin, dichiarando poi – illudendosi – di aver fatto finire la guerra fredda. Quello fu un modo mercantile, informale, in assenza di trattati internazionali chiari, nero su bianco sull’assetto dell’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino, di imbastire un marketing di pace. Era un’illusione nel lungo periodo. La guerra fredda veniva messa solo nel congelatore, come oggi è evidente. Il surrogato “commerciale” ad accordi di pace preventiva nero su bianco con trattati internazionali di compromesso – dove le potenze si com-promettono, si promettono insieme un qualche status di relazioni sostenibile per il bene dei loro popoli, è una lezione famosa di Ratzinger ai politici tedeschi del 1981 – non funziona. Il marketing di pace tra grandi potenze non può fare a meno di accordi internazionali politici istituzionali, e il tavolo economico è solo uno dei tavoli necessari, e almeno quello della reciproca sicurezza è imprescindibile. È un punto di evidenza che non si può più mettere da parte, e sarebbe ora di passare dalle bottiglie di vodka alle matrioske, metafora più utile a capire la situazione in Ucraina per porvi riparo. Le matrioske, le bamboline cave in legno dipinto di grandezza variabile, ciascuna delle quali inseribile in quella immediatamente più grande. Le matrioske funzionano solo se sono inseribili l’una nell’altra, se non si vuole romperle.
In Ucraina, nella prima matrioska, quella della guerra, la scena dipinta dà certo torto a Putin, l’aggressore. Ma quando la si prova ad inserire nella seconda più grande matrioska, l’Europa, e quello che dopo il 1989 avrebbe dovuto essere dipinto sulla sua superficie, e cioè accordi di pace rispettabili e rispettati da tutti, la prima matrioska non si fa inserire con facilità nei ragionamenti partigiani che si sentono. E infine questa seconda matrioska ha il problema urgente di inserirsi nella terza più grande matrioska che le contiene, gli assetti geopolitici globali in subbuglio. Cosa deve esserci dipinto su questa matrioska generale? La competizione globale sul piano economico e più in generale nei rapporti tra le grandi potenze atomiche può prevedere scene belliche come quella in Ucraina, o tali scene devono essere messe al bando perché non c’è artista al mondo in grado di dipingerle senza mandare in frantumi tutta la matrioska? Ecco, in modo mercantile il vecchio Berlusconi ha posto un problema di questo tipo. In modo più consapevole, geopolitico, un punto non dissimile argomenta Kissinger. Non sempre i nonni hanno torto a fronte dei loro baldanzosi nipoti, che dovrebbero rispondere al quesito che nei giorni di Sanremo Roger Waters, co-fondatore dei Pink Floyd, ha posto all’ONU ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza: «Quali sono i vostri obiettivi? Maggiori profitti per le industrie belliche? Più potere a livello globale? Una fetta più grande della torta globale? La Madre Terra è una torta da divorare? La maggioranza senza voce è preoccupata che le vostre guerre distruggeranno il pianeta, che è la nostra casa, e insieme ad ogni altro essere vivente saremo sacrificati sull’altare di due cose: i profitti della guerra per riempire le tasche di pochi, pochissimi, e la marcia egemonica di qualche impero o l’altro verso il dominio mondiale unipolare. Per favore, rassicurateci che questa non è la vostra visione, perché non c’è alcun risultato positivo su questa strada. Questa strada porta solo al disastro».
Le matrioske funzionano solo se sono inseribili l’una nell’altra, se non si vuole romperle.
C’è un bisogno urgente per tutti noi, per il mondo, che si torni al fotogramma della stretta di mano tra Biden e Xi al vertice di Bali, che sembrava voler dare garanzie che nel confronto tra Occidente e resto del mondo non si sarebbe andati oltre. Era sembrato con la stretta di mano di due leader usciti rafforzati dalle dinamiche di politica interna (la riconferma di Xi Jinping alla guida della Cina, il rilancio delle ambizioni di riconferma di Joe Biden alla Casa Bianca dopo le elezioni di Midterm), e dopo tre ore di «franco colloquio», che venisse sotterrata l’ascia di guerra e che Usa e Cina si impegnavano a ripudiare, e far ripudiare agli altri, l’uso del nucleare, e più in generale del confronto militare, per dirimere le tensioni della globalizzazione e della loro competizione per la sua guida.
Mentre licenzio queste osservazioni, purtroppo non sembra più così. Hanno ripreso a volare alti i falchi della guerra.
Eppure, era sembrato, con quella stretta di mano, che si facesse avanti la convinzione del bisogno, al di là delle aspirazioni dei popoli, cui si dedicano le anime belle (e volentieri mi ci iscrivo), che alla competizione non belligerante sino-americana era giovevole che non ci fossero eccessive turbolenze. E che il conflitto sul suolo d’Europa tra Russia e Ucraina potesse essere indirizzato o forzato a un compromesso senza vinti né vincitori “totali” perché le guerre, di un certo impegno e a una certa scala, nell’età della tecnica nucleare non possono essere chiuse se non con la diplomazia della “pacificazione”. Sembrava che si fosse preso atto che la globalizzazione porta da sé conflitti, e che va gestita, nell’incapacità o nella non volontà di essere cooperativi, in modo competitivo, ma non oltre una certa soglia. Si sceglieva in fondo con quella stretta di mano la via facilior della Realpolitik. Si rinunciava, insomma, a “generare pace” (la via difficilior che dovremmo invece intraprendere nell’interesse della “comunità” umana e della sua “casa comune”, il pianeta), ma sembrava che fossimo pronti a entrare ufficialmente nell’età della “pacificazione” dei conflitti (magari anche armata; per essere realisti fino in fondo).
Poiché il meglio è nemico del bene, siamo costretti a sperare, che “là dove si puote”, si torni almeno alla stretta di mano di Bali. E che l’Europa e l’Italia diano una mano, ci sembreremmo il minimo sindacale della dignità europea e nazionale. Anche se immagino già l’obiezione che il sindacato è in crisi dappertutto… Ma sono in crisi i bisogni dei più deboli che il concetto e l’istituto esprime?
Eugenio Mazzarella
Filosofo, è Professore emerito di Filosofia Teoretica, Università Federico II di Napoli. È stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Federico II dal 2005 al 2008, anno in cui è stato eletto deputato al Parlamento italiano. Tra i maggiori interpreti di Heidegger e Nietzsche a livello internazionale, ha curato molte delle edizioni italiane delle opere heideggeriane. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni. Per Carocci sono stati di recente ripubblicati due suoi classici studi: Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger (2021; 1ª Guida, 1981) e Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita (2022; 1a Guida, 1983). Apprezzato poeta, le sue raccolte gli sono valse l’apprezzamento della critica e svariati riconoscimenti.